Dottoressa Gianna d’Adamo pubblicato su TI INFORMO novembre dicembre 2019

 

La vita delle persone in dialisi è ancora gravata da molte limitazioni derivanti dalla terapia e l’attesa del trapianto è spesso molto o troppo lunga. Grandi speranze per il miglioramento della qualità di vita sono quindi riposte in ulteriori progressi tecnologici e mi sembra interessante accennare a due recenti notizie che mostrano il progresso di alcune ricerche proprio in questa direzione.

A Singapore, è stato testato su alcune persone in dialisi peritoneale un dispositivo, che viene connesso al catetere peritoneale e si indossa come un borsello, grazie al quale il volume di soluzione dialitica necessario per una intera giornata di terapia viene ridotto a meno di due litri. La tecnologia che consente questa riduzione si basa sulla rigenerazione del dialisato, cioè della soluzione dialitica già entrata in contatto con il peritoneo che viene fatta passare su dei sorbenti che trattengono le tossine uremiche e la rendono nuovamente utilizzabile come se fosse una soluzione fresca.

L’uso di sorbenti è alla base di tutti i sistemi cui stanno lavorando da anni molti gruppi di ricercatori - e gli italiani sono all’avanguardia -, per realizzare dispositivi capaci di ultrafiltrare e/o depurare in maniera efficace le persone in emodialisi o in dialisi peritoneale mentre si muovono e svolgono le loro usuali attività. I sorbenti consentono di utilizzare una quantità di soluzione dialitica minima, molto inferiore a quella usuale, ma di assicurare al tempo stesso la dose di depurazione/ultrafiltrazione necessaria per la persona. Ma nei dispositivi indossabili devono essere garantiti anche tutti i monitoraggi nella massima miniaturizzazione e senza collegamento alla rete elettrica. Per l’emodialisi, inoltre, accesso vascolare, circuito del sangue e membrane dialitiche devono essere anti-trombogenici.

Ulteriori sviluppi e ulteriore tempo sono quindi sicuramente necessari prima che si arrivi all’applicazione clinica ma forse non siamo più lontanissimi.

La seconda notizia riguarda la sperimentazione del prototipo di un bioreattore contenente cellule renali umane che è stato impiantato ad alcuni animali di grossa taglia senza che si siano manifestate risposte immuni da parte dell’ospite. Questo risultato sarebbe dovuto alle speciali membrane in silicone in cui sono state racchiuse le cellule renali umane per evitarne l’esposizione al sistema immune dell’animale.

Durante la sperimentazione, inoltre, non si sono formati coaguli nel sangue e i ricercatori dell’Università della California ritengono che questa temibile complicanza sia stata evitata grazie alla conformazione del dispositivo che ha consentito di mantenere il flusso ematico non turbolento e ad una sostanza innovativa con cui hanno rivestito le membrane di silicone a contatto con il sangue.

Questa potrebbe quindi essere una tappa fondamentale per molte applicazioni e in particolare per lo sviluppo di un rene bioartificiale in grado di svolgere molte delle funzioni metaboliche ed endocrine di un rene sano, possibilmente senza la necessità di farmaci immunosoppressori. Infatti l’obiettivo del “kidney project” di cui fa parte questa sperimentazione è la realizzazione di un dispositivo impiantabile composto da un emofiltro con membrane siliconiche per la rimozione delle tossine dal sangue e da un bioreattore con cellule renali umane per il mantenimento dell’equilibrio idrosalino e della pressione arteriosa e per la produzione di ormoni.

Per lo sviluppo di un dispositivo da impiantare chirurgicamente che sia in grado di svolgere, e di continuare a svolgere nel tempo, tutte queste funzioni, i problemi da risolvere sono ancora innumerevoli ma con il tempo e gli investimenti necessari.

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